Venezia, Monteverdi, la peste e il business dell’opera.
Claudio Monteverdi. Quello che più di tutti ha contribuito a creare la sensibilità musicale che ci appartiene ancora oggi. Se ricordiamo i momenti più significativi della nostra vita con un brano di musica è anche grazie a lui. Se godiamo di quello spettacolo del tutto assurdo che è l’opera, che ci muove alle lacrime e ci fa interrogare su noi stessi, è Monteverdi che dobbiamo ringraziare e/o maledire.
Monteverdi è una cerniera, un crinale: sta in mezzo tra Cinquecento e Seicento (1567–1643), tra Cremona, Mantova e Venezia, tra chiesa e teatro, tra antico e moderno. Vive gli ultimi trent’anni della sua vita nella città lagunare, a servizio della Repubblica Serenissima, che lo ha assunto a ricoprire uno dei posti più prestigiosi dell’Europa musicale del primo Seicento: quello di maestro di cappella nella basilica di San Marco, la chiesa d’oro. Solo qui un compositore non è soggetto al «capriccio dei prìncipi» e può godere della stabilità economica e politica per dedicarsi all’arte in tutta tranquillità, nel prestigio internazionale della sua posizione.
Monteverdi non inventa l’opera, ma le regala il suo primo capolavoro: (L’Orfeo, Mantova nel 1607). A Venezia inanella successi teatrali e commerciali: non c’è casa dove ci sia un cembalo o un liuto in cui manchi una copia del suo Lamento d’Arianna, forse il primo singolo nella storia della musica. La città pullula di teatri, che serve abitualmente. Nei palazzi risuonano i suoi madrigali e le sue arie.
Nell’estate del 1630 – Monteverdi ha sessantatré anni – la più spaventosa epidemia di peste nella storia dell’Europa moderna arriva a Venezia. La città, allora estremamente popolosa, perde un terzo dei suoi abitanti. Le gondole disadorne e nere di pece solcano i rii colme di cadaveri. I medici si proteggono con una maschera dal becco oblungo pieno di erbe ed essenze aromatiche, tonache nere, guanti e cappellacci. Il silenzio è lugubre: teatri chiusi, spenta la voglia di far musica in casa, rintocchi e messe da morto nelle oltre cento chiese cittadine.
Solo nel novembre 1631 l’epidemia viene dichiarata sconfitta: sedici mesi dopo. Si decide di erigere il grande tempio mariano della Salute, si chiama Monteverdi per dare il giusto sfarzo alla posa della prima pietra.
I teatri gradualmente riaprono e tornano ad affollarsi a un punto tale che i veneziani, mercanti nel DNA, fiutano l’affare del secolo: togliere alle corti e all’aristocrazia l’esclusiva sull’opera e renderla accessibile a chi possa pagare un biglietto. Nel maggio del 1637 al teatro di San Cassian nasce l’opera impresariale, un’operazione di business che spopola e si rivela tanto longeva da arrivare ai giorni nostri. Monteverdi continua a servire i teatri veneziani sino ad arrivare, nell’anno della sua morte, al suo ultimo grande capolavoro: l’Incoronazione di Poppea. A fine Seicento i teatri attivi a Venezia tra prosa e opera arrivano addirittura a essere diciassette.
Ascolta la nostra playlist dedicata a Monteverdi