Beethoven attraversa – e, per più di qualche aspetto, incarna – uno dei momenti più travagliati nella storia europea. Il suo apporto alla storia della musica è incalcolabile: un autentico spartiacque. Ma logiche, saperi, linguaggi e convenzioni non conoscono epoche e filtrano di generazione in generazione, sfuggendo all’incasellamento in cui li vorremmo ordinati. Beethoven con la sua vita e la sua musica ci dimostra anche questo.
Il 2020 raggiunge non solo i duecentocinquant’anni dalla nascita di Beethoven, ma anche dalla morte di altre due grandi personalità del Settecento: Giambattista Tiepolo e Giuseppe Tartini. Così, quel 1770 viene a suggerire, simbolicamente, il tramonto di un mondo e l’alba di uno nuovo, per molti aspetti diverso per quel che riguarda alcuni aspetti della società e, di conseguenza, dell’arte. Ma il trapasso non è certamente netto, tantomeno lineare.
Tiepolo è il grande realizzatore dei sogni di gloria dell’aristocrazia dominante: scene oniriche grandiose e leggere allo stesso tempo, colori pastello tenui e rarefatti, privi di ombre scure, voli e squarci virtuali in soffitti e pareti popolati di eroi storici e mitologici. Tartini appartiene a questo mondo in cui gli artisti lavorano grazie alle committenze di nobiltà e clero, nelle cui corti sono impiegati come inservienti; una figura assai poco conformista come quella del violinista di Pirano non ha infatti vita facile, al principio della sua carriera.
Questo mondo però s’incrina: primo e secondo stato vengono spazzati via a Parigi da quel fatidico 14 luglio 1789. Il diciannovenne Ludwig van Beethoven, come il padre e il nonno, è legato a doppio filo con l’arcivescovo elettore di Colonia, di cui è un capace e diligente impiegato in qualità di musicista. Non è l’eliminazione dell’aristocrazia cui si anela al di là del Reno, piuttosto a un’illuminazione della stessa. Si legge spesso che Beethoven sia stato il primo compositore ad affrancarsi da un ruolo servile; è del tutto vero?
Anche i due grandi classici viennesi hanno iniziato un parziale processo di svincolamento dal mecenatismo aristocratico: morto il principe Nicola I Esterházy, Haydn intraprende un viaggio a Londra e sperimenta per breve tempo luci e ombre della libera professione musicale, mantenendo una pensione dalla famiglia del compianto mecenate. Liberatosi dai lacci dell’arcivescovo von Colloredo, Mozart prova sulla sua pelle il capestro della condizione di freelance alla ricerca affannosa di lavoro.
È evidente che la situazione è inedita: per secoli i compositori hanno vissuto e lavorato per la Chiesa o presso una corte, con impieghi diplomatici e status da lacché; era l’assoluta normalità. Il musicista dell’ultimo Settecento non ha ancora un pelo sufficientemente folto per affrontare il mondo da solo.
Un mondo di lupi allora come oggi, fatto perlopiù di musica commerciale e di intrattenimento, di colleghi con pochi scrupoli che si vendono per poco, pronti a tutto per un immediato riconoscimento e guadagno, meglio se facile. Ci cascherà anche Beethoven. Quando però – poco più che ventenne – arriva a Vienna, ha forse poco pelo, ma zanne affilate: in poco tempo sbaraglia i virtuosi più quotati e si fa strada come miglior pianista della capitale europea della musica. È finanziato dal conte Waldstein – tra i dedicatari più fortunati della storia della musica – ma ambisce al posto fisso.
Il posto fisso: chimera di ogni freelance? Beethoven, al di là di ogni stereotipo che lo vuole pervicace idealista ante litteram, anela per tutta la vita a diventare maestro di cappella imperiale a Vienna, o a un ruolo di pari prestigio. Il suo rapporto con l’aristocrazia, insomma, sarà sempre ambiguo: da un lato rifiuta regalìe di ogni sorta, se non abilmente dissimulate dal nobile di turno; dall’altro, pretende assegni e vitalizi da parte della classe dominante per poter portare avanti la sua arte libero di preoccupazioni materiali.
E ottiene tutto questo. Pur di farlo rimanere stabilmente a Vienna, tre grandi aristocratici formano una cordata per garantirgli un cospicuo assegno annuo. Beethoven, fra il 1803 e il 1813, è un uomo ricco e di successo, in pieno exploit creativo, in una condizione di magica intesa tra le sue esigenze artistiche e morali e la necessità del pubblico europeo post-rivoluzionario.
Ma arrivano anni bui: con la Restaurazione si assiste a un assopimento della borghesia viennese, desiderosa di accoccolarsi in un godimento edonistico della musica, musica che non deve più porre problemi, interrogativi e imperativi. Beethoven è smarrito.
I suoi amori sono un fallimento. La sordità precipita. I protettori e finanziatori emigrano, muoiono o si ritirano. Le idee scarseggiano. È un periodo nero, incerto, squallido: Beethoven è trasandato, si dà al vino e frequenta prostitute; disprezza sé stesso e medita il suicidio (in maniera ben più preoccupante dello struggente testamento di Heilgenstadt del 1802). La sua musica tocca il punto più basso: una macchietta dello stile eroico che l’ha reso grande e un silenzio inusitato per chi di mestiere fa il compositore.
La moneta austriaca si svaluta pesantemente, Beethoven è preoccupato per le sue finanze. Contestualmente, i fantasmi della sua psiche sono fuori controllo e inizia una lunga e pesante diatriba legale con la cognata per l’affidamento del nipote Karl che, oppresso dalla figura maniacale dello zio, tenta di spararsi alla testa. Una tardiva riconciliazione del compositore con quel che gli rimane della sua famiglia avviene solo a pochi mesi dalla morte.
In una situazione tanto pesante Beethoven torna, dalla fine del 1817, a rifugiarsi nel lavoro. Da un lato porta avanti la figura del compositore pubblico con la Missa Solemnis e la Nona Sinfonia, che brama la gloria universale e il riconoscimento pubblico. Il suo destinatario però non è più solo quello dei convitati alla corte imperiale, ma – nell’immediato – il pubblico pagante delle serate musicali e – a lungo termine – l’umanità intera e la posterità. Dall’altro lato, Beethoven si rifugia in sé stesso da compositore-pensatore, che affida alla carta pentagrammata le sue meditazioni musicali, ma sempre coltivando l’ambizione di elevare spiritualmente un certo pubblico. Ecco dunque il Beethoven delle ultime tre sonate per pianoforte e, soprattutto, degli ultimi quattro quartetti per archi.
Libero dalle imposizioni commerciali, noto a tutti, adorato da molti e pieno di progetti, Beethoven guarda al passato e contamina la forma classica radicata nel suo pensiero con gli spunti arcaici dei modi gregoriani e dello stile severo del primo settecento. Da un lato la semplicità popolare dell’Inno alla gioia, dall’altro le vette metafisiche degli ultimi quartetti e le tremende asperità della Grande Fuga. E, alla fine di tutto, la bonomia disincantata e settecentesca dell’ultimo quartetto, chiuso con l’estremo sberleffo di una fuga scanzonata e sghignazzante.
Non c’è, dunque, cesura netta tra il mondo di Tiepolo e Tartini e quello di Beethoven: l’ultimo figlio di Tiepolo impiega il linguaggio del padre per i suoi Pulcinella ebbri e scatenati negli anni in cui Beethoven pubblica la Pathétique e l’op. 18. Contestualmente, E.T.A. Hoffmann riconosce in Tartini una delle espressioni più alte del potere sconvolgente della musica. Beethoven prende tanto da Palestrina, Bach e Haendel quanto da Mozart, Haydn e dai philosophes illuministi. Tutto questo convive nel suo cosmo.
Mauro Masiero