Bach e i concerti Brandeburghesi.
Il lusso per tutti
Sì, è un paradosso bell’e buono. È vero che il concetto di lusso comprende quello dell’esclusività e, quando diventa di pubblico dominio, perde una parte significativa di ciò che lo denota come tale; eppure, da un certo punto di vista, ci sono degli autentici lussi che in qualsiasi momento ci possiamo concedere e che si rivelano esclusivi proprio perché nostri e di nessun altro.
I sei concerti di J.S. Bach noti come Brandeburghesi sono un esempio lampante di dono sontuoso che si può fare a sé stessi, di come si può trovare e ritenere per sé il massimo quando si necessita di quello speciale appagamento che solo un regalo azzeccato può dare. Perché i Brandeburghesi sono proprio questo: il massimo; il massimo del fasto sonoro, della ricercatezza compositiva, della felicità di invenzione, del virtuosismo strumentale.
Il nome suona pretenzioso e antipatico; non facciamocene spaventare. Si tratta di uno di quei nomignoli appioppati dopo la morte del compositore e fossilizzati nella tradizione, proprio come le sonate Chiaro di luna e Appassionata, che Beethoven non sopportava. Bach li chiama semplicemente concerti con più strumenti, in francese, la lingua letteraria ufficiale della corte per eccellenza.
Siamo nel 1721, trecento anni fa esatti, e la dedica va a Christian Ludwig, principe elettore del Brandeburgo, appunto. Bach cerca un nuovo posto di lavoro, forse; oppure richiede favori o sostegno, non lo sappiamo. Quel che è chiaro è che la partitura ci mette di fronte a un compositore in piena forma, totalmente padrone della tecnica strumentale e pienamente conscio del suo valore. In caso contrario, non avrebbe dato alla luce una raccolta tanto insolita ed eterogenea.
Questi sei concerti, infatti, mettono in campo forze musicali sempre diverse tra loro e, perlopiù, inusitate. Il concerto, nell’Europa del 1720, è un genere alla moda: è fatto di tre o quattro movimenti, episodi diversi e contrastanti per garantire varietà e spunti sempre nuovi per l’ascoltatore.
A inizio Settecento spopolano a Roma i concerti di Corelli, che contribuisce a fondare il genere e a consolidarne la struttura; a Venezia,Vivaldi è imbattibile nei concerti in cui uno o più solisti dialogano con una piccola orchestra. La voce si diffonde presto in Europa e le corti tedesche ne consumano una quantità industriale. Del resto, così è la musica nel primo Settecento: produzione e consumo quasi industriali per un godimento effimero. Passa l’occasione e passa la musica, che cade nel dimenticatoio, e la richiesta di composizioni sempre nuove è continua. È quindi normale trovarsi alle prese con compositori estremamente prolifici, con una montagna di manoscritti e con un numero relativamente scarso di partiture a stampa.
Per venire incontro alle esigenze dei dilettanti, core business degli editori di musica, la scrittura musicale si semplifica; Vivaldi è il vero maestro di questo, ve ne parleremo. Non è però il caso di Bach che, nella piccola corte di Cöthen, ha a disposizione un’orchestra di prim’ordine, con alcuni tra i migliori professionisti allora in circolazione. La storia di Bach a Cöthen e della sua attenzione particolare rivolta alla musica strumentale è affascinante e non vediamo l’ora di raccontarvela nelle prossime occasioni: cosa ci fa Bach in quella cittadina? Come ci sono arrivati questi musicisti fuori dal comune e perché?
Ancor più affascinante però è il cosmo sonoro multicolore dei Brandeburghesi, vero lusso per le orecchie. Trecento anni fa vengono forse eseguiti dai fenomenali musicisti di Cöthen; poi la partitura, difficile e insolita, viene presto dimenticata.
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